Siccome sto preparando una cosa sul J-Horror, ultimamente sto recuperando qualche film dell'orrore giapponese che mi ero perso negli ultimi anni, accompagnandone la visione con la lettura di alcuni saggi critici usciti successivamente al mio libro sul fenomeno (pubblicato "a caldo" nel 2005 - lo trovate in fondo alla colonna sulla destra). Finora ho visto poca roba veramente interessante, confermando così l'impressione che quello del J-Horror sia, salvo casi eccezionali, un fenomeno prosciugatosi da quasi un decennio, ormai. Un paio di chicche degne di nota però le ho intercettate, e Norowareta ie - Zoroku no kibyō (Ravaged House - Zoroku's Disease, 2004) di Kumakiri Kazuyoshi è una di queste. Un mediometraggio tra il primo Cronenberg, Lynch e Ozu, tanto per spararla grossa. Ne ho scritto una recensione per Sonatine a questo indirizzo, se vi interessa.
lunedì 24 febbraio 2014
venerdì 14 febbraio 2014
Wild Berries (Nishikawa Miwa, 2003)
Riporto qui il link alla mia scheda su Sonatine di Hebi ichigo (Wild Berries, 2003) di Nishikawa Miwa, notevole opera d'esordio di una delle più interessanti tra le numerose cineaste giapponesi salite alla ribalta nel corso degli anni Duemila. Sulla scia di Kawase Naomi, verrebbe da dire, ma sarebbe una generalizzazione fuorviante (oltre che vagamente sessista) visto che il cinema di Nishikawa, così come quello di Ogigami Naoko, Tanada Yuki e Ninagawa Mika, c'entra poco o nulla con quello della più celebre (soprattutto all'estero) cineasta giapponese donna, e non renderebbe giustizia all'eterogeneità del fenomeno.
mercoledì 12 febbraio 2014
Kaidan (Nakata Hideo, 2007)
Kaidan (aka Apparition - Amare oltre la morte)
Nakata Hideo, 2007
Sceneggiatura: Okudera Satoko (da un racconto di Enchō San’yūtei); Fotografia: Hayashi Jun’ichirō; Suono: Nonaka Hidetoshi; Scenografie:
Taneda Yohei; Trucco: Matsui Yūichi; Effetti speciali: Sashiura Hidekazu; Montaggio: Takahashi Nobuyuki; Musiche: Kawai Kenji; Interpreti: Onoe Kikunosuke (Shinkichi),
Kuroki Hitomi (Oshiga), Inoue Mao (Ohisa), Asō
Kumiko (Osono); Produzione: Ichise
Takashige, Sakamoto Jun’ichi per Oz; Durata:
115’; Prima proiezione: 4 agosto
2007.
Soetsu, un agopuntore recatosi da un arrogante samurai per
riscuotere un debito, viene ucciso da questi con un fendente in pieno volto e
poi gettato in uno stagno su cui grava una maledizione. Invano le due figlie
dell’uomo, Oshiga e Osono, attenderanno il ritorno del padre, ma un destino ugualmente
tragico spetta al samurai, il quale impazzirà di lì a poco, facendo strage
della famiglia e lasciandosi dietro solo il figlio neonato: Shinkichi. Gli anni
trascorrono, e Shinkichi, trasferitosi nella capitale Edo e ora divenuto un bel
giovane, si innamora di Oshiga, inconsapevole della sua identità. La donna, anch’ella
ignara del fatto che Shinkichi sia figlio dell’assassino di suo padre, ricambia
presto il suo amore, ma mostra un attaccamento e una gelosia eccessivi nei suoi
confronti, tali da generare una piccola lite durante la quale lei, come già suo
padre, si ferisce inavvertitamente il volto. L’orrenda infezione che ne deriva
peggiora di giorno in giorno, finché la donna muore senza l’amato al suo
fianco: il ragazzo, infatti, sentendosi oppresso dalla malattia e dalla gelosia
di Oshiga, si trova in quel momento in compagnia della più giovane Ohisa. Per
quanto scosso dalla morte di Oshiga, che gli appare come fantasma e gli lascia
un minaccioso biglietto in cui lo intima di non sposare altre donne, Shinkichi
si decide lo stesso a partire con Ohisa verso il paese natio. Senonché, il
fantasma della defunta lo spinge, provocandogli un’allucinazione, a strangolare
la ragazza presso lo stesso stagno in cui era stato gettato Soetsu. Shinkichi
si salva e, col passare del tempo, si rifà una vita anche grazie all’aiuto
della ritrovata Osono, sposando infine un’altra donna e proponendosi di esserle
sempre fedele per espiare le proprie colpe passate. Ma i buoni propositi non
bastano, e la maledizione di Oshiga non abbandona l’uomo, il quale finirà
tragicamente, insieme alla moglie e alla figlia neonata, per poi
ricongiungersi, nella morte, all’amata di un tempo.
Il contributo di Nakata Hideo alla serie di sei film “J-Horror
Theatre” (ideata - a dire il vero un po’ in ritardo sui tempi - dal produttore
Ichise Takashige allo scopo di esportare sulla scena internazionale i nomi dei
principali artefici del J-Horror sfruttando la risonanza planetaria offerta dal
controverso fenomeno dei remake hollywoodiani),
è un rispettoso omaggio alle origini del suo cinema: la letteratura kaidan e il genere cinematografico che
ne è derivato, il quale ha conosciuto la sua epoca d’oro a cavallo tra gli anni
Cinquanta e i Sessanta, e ha trovato, incursioni d’autore a parte, in Nakagawa
Nobuo il suo esponente di maggior spicco. In anni nei quali appariva ormai
stagnante e ampiamente inflazionato il panorama del J-Horror, fenomeno cinematografico
fortemente caratterizzato da insistiti riferimenti a una contemporaneità che
prende forma nei suoi feticci tecnologici in continua evoluzione (videocassette,
internet, cellulari, fotografie digitali), l’operazione quasi filologica di
riscoperta delle sue radici operata da Nakata, che di tale fenomeno è stato uno
dei protagonisti indiscussi, non risulta affatto scontata e appare come un
sincero tentativo, per quanto non pienamente riuscito, di scrollarsi di dosso
il peso di cliché ormai triti e banalizzazioni varie per tornare alle illustri
origini del genere e ribadirne l’impronta autoctona. Nel riportare sugli
schermi il classico della letteratura kaidan
firmato da Enchō
San’yūtei, Kasane-ga-fuchi, già
tradotto innumerevoli volte per il cinema e la televisione (anche dallo stesso
Nakagawa, nel 1957), Nakata non si discosta quasi mai dai dettami di questo
peculiarissimo genere cinematografico intimamente legato alla letteratura del
periodo Edo e al teatro kabuki,
limitando a poche scene di terrore le concessioni all’horror moderno. Il
risultato è un film raffinato e suadente, forse ancor più vicino, nelle
atmosfere, al suo omonimo del 1964 diretto da Kobayashi Masaki. I movimenti di
camera lenti e avvolgenti (come le serpi che compaiono nel film, quasi a
ricordare una delle figure più note del kaidan:
la donna serpente), solo qua e là bruscamente interrotti da shock visivi e
sonori di più recente ispirazione, bene incarnano la miscela di melodramma
passionale, sottile inquietudine e opprimente fatalismo che caratterizzava il
cinema kaidan (e che Nakata ha poi
efficacemente tradotto al presente in uno dei suoi film migliori: Dark Water). Il personaggio di Shinkichi
in primis, interpretato dall’attore di kabuki
Onoe Kikunosuke, il cui trucco e la cui recitazione rimandano direttamente alle
forti influenze che questa forma di teatro esercitava sui jidai-geki del passato, contribuisce a donare a questo film un
aspetto fuori dal tempo. Un’operazione
forse fine a se stessa e che difficilmente scuoterà gli animi dello spettatore
di oggi (a eccezione della scena della neonata defunta, comunque di forte
impatto), ma non per questo priva di fascino.
martedì 11 febbraio 2014
Sì, lo so.
Mi rendo perfettamente conto del fatto che la scritta qui in alto dice che qui dovrei anche parlare di manga, mentre sinora ho parlato praticamente solo di film (al massimo di film tratti da manga, quello sì).
Mi inventerò qualcosa. Magari potrei parlare del mio lavoro, visto che tra un paio di mesi saranno trascorsi dieci anni da quando l'ho iniziato. Potrei spiegare cosa significa tradurre e adattare un manga in italiano.
lunedì 10 febbraio 2014
R100 (Matsumoto Hitoshi, 2013)
Siccome non riuscivo a dormire, ieri mattina ne ho approfittato per guardarmi un film che ero abbastanza smanioso di vedere, dal momento che l'autore, il celebre comico Matsumoto Hitoshi altrimenti noto come Matchan, è forse il regista giapponese che, negli ultimi anni, ha saputo sorprendermi maggiormente. Il film è R100, e ne trovate una recensione su Sonatine (a firma di Dario Tomasi). La quarta fatica di Matsumoto è ambientata nel mondo dei club sado-maso, ed è pertanto tematicamente assai distante dal precedente Saya-zamurai (che era un jidai-geki sui generis), ma si colloca in maniera perfettamente coerente rispetto al resto della sua filmografia, nel suo raccontare la storia di un antieroe triste, sfigato e bistrattato che, in un certo senso, si riscatta attraverso un quanto mai inconsueto percorso di "sublimazione". Anche questa volta, tale percorso si snoda lungo una serie di prove assurde e umiliazioni a cui il protagonista viene sottoposto. Inoltre, come avveniva in Symbol, la storia del protagonista è affiancata da un'altra vicenda che si dipana su un diverso livello narrativo (in Symbol era la storia del wrester messicano, qui quella del regista centenario a cui viene attribuita la paternità del girato, in una serie di scene che contrappuntano la visione del film commentandone ironicamente i contenuti). Rispetto agli altri lavori di Matsumoto, ho avuto l'impressione che, nel complesso, R100 manchi di coesione e di una direzione precisa, e che le trovate geniali del regista non sempre vengano sviluppate al meglio trovando una collocazione coerente e ben amalgamata all'interno del film, il che conferisce all'opera, soprattutto nella seconda parte, una certa frammentarietà e sconclusionatezza che solo parzialmente è giustificata dall'escamotage metacinematografico degli spezzoni di film visionati dalla commissione preposta a giudicare l'opera del centenario regista. C'è anche da dire che, in alcuni punti della seconda parte, si ha l'impressione che la pur sempre notevole verve pop, visionaria e surreale di Matsumoto si adagi su territori lievemente meno originali (in quanto già battuti da cineasti come Miike Takashi, Ishii Katsuhito, Sono Sion e Suzuki Matsuo) rispetto ai suoi standard. Ma sono difetti minimi, e basta la scena del rigo musicale ad attestare l'unicità della cifra stilistica del Matchan regista (nella speranza che questo genere di climax non diventi maniera) e la sua peculiarissima capacità di trascendere il semplice farsesco. In ogni caso, personalmente l'ho preferito a Saaya-zamurai, verso il quale forse nutrivo aspettative eccessive (contrariamente a questo film, da cui invece temevo una delusione).
mercoledì 5 febbraio 2014
A Ghost of a Chance (Mitani Kōki, 2011)
Tanto per cambiare un po' genere, questa settimana mi sono guardato, a puntate come purtroppo sono spesso costretto a fare, Sutekina kanashibari (A Ghost of a Chance, 2011) di Mitani Kōki, regista di un certo successo di cui finora non avevo mai visto nulla. Ne trovate una scheda più approfondita (a firma di Franco Picollo) su Sonatine. Io mi limito a dire che si tratta di una commedia fantastico-sentimentale ambientata in tribunale, dalla confezione molto classica ma indubbiamente ben orchestrata nel suo aderire perfettamente ai propri (dichiarati, dato che Capra viene menzionato esplicitamente e pure con una certa insistenza) canoni di riferimento. Il rovescio della medaglia è che per forza di cose risulta notevolmente datata e meccanica nello svolgimento (sia a livello di soluzioni narrative che di gag, ma anche nella caratterizzazione dei personaggi), ma ciò non toglie che vi compaiano tre o quattro scene azzeccate e sinceramente divertenti (forse un po' poco, per un film di due ore e venti). Un film tutto sommato godibile, quindi, al cui risultato concorre anche l'affiatamento dell'ottimo cast.
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