martedì 31 dicembre 2013

Tomorrow's Joe (Sori Fumihiko, 2011)

Altro film tratto da un celeberrimo manga (giuro che da metà gennaio cambio argomento): Tomorrow's Joe (Ashita no jo, 2011) di Sori Fumihiko, trasposizione del classico di Takamori Asao e Chiba Tetsuya, già tradotto in un'altrettanto famosa serie animata, diretta da Dezaki Osamu, trasmessa in Italia col titolo di Rocky Joe.
L'impressione generale è simile a quella che mi aveva suscitato il live action di Death Note: un film che potrebbe camminare sulle proprie gambe grazie a una discreta perizia registica, se non fosse che l'impianto epico-drammatico dell'opera rende più difficile, causa la totale mancanza di ironia, accettare la rigida e massiccia acquisizione dell'immaginario di partenza cui aderiscono personaggi e ambienti. La fedele aderenza alla trama anche nei momenti più parossistici e l'assoluta letteralità delle citazioni iconografiche (valga per tutti la precisione con cui è stata trasformata la figura di Kagawa Teruyuki, che interpreta il maestro Tange Danpei, ma si pensi anche all'immagine fortemente stereotipata degli abitanti dei sobborghi, o alle pose innaturali dei combattenti) rende particolarmente arduo il processo di sospensione dell'incredulità da parte dello spettatore, che finisce per trovarsi spiazzato di fronte all'associazione di un mondo fortemente tipizzato a un registro tutto sommato realistico. Per rendere pienamente accettabile l'operazione, il regista (che già si era cimentato col manga sportivo nel più scanzonato Ping Pong, con risultati tutto sommato simili), avrebbe forse dovuto osare maggiormente in una direzione o nell'altra: abbandonando drasticamente il bagaglio iconografico d'origine (pena le ire dei fan, sempre alla ricerca della fedeltà assoluta), oppure accogliendolo con maggiore consapevolezza, trasfigurando con maggior coraggio l'impianto realistico del film come talvolta gli riesce nella rappresentazione degli incontri (durante i quali deforma digitalmente i volti degli attori colpiti dai pugni, in attimi sospesi tramite l'uso del ralenti o del fermo-immagine).

sabato 21 dicembre 2013

Cutie Honey (Anno Hideaki, 2004)


Altra trasposizione cinematografica di un manga, come anticipato un paio di post fa, è Cutie Honey (2004) di Anno Hideaki. In questo caso il legame con l'universo disegnato si fa più stretto e articolato rispetto a Crows Zero, in quanto a tradurre in film l'omonimo manga del celebre Nagai Gō (che compare in una scena) è un suo collega, ovvero un altro grande maestro, seppure di una generazione più giovane, del cinema d'animazione: Anno Hideaki, autore, tra le altre cose, della saga di Evangelion, della divertente serie animata Le situazioni di lui & lei, nonché di un altro film live action, Love & Pop (1998), e di un remake animato dello stesso Cutie Honey, realizzato parallelamente alla versione cinematografica.
Tralasciando il risultato in sé - un divertissement o poco più, spesso nemmeno così divertente - ho trovato Cutie Honey abbastanza interessante nel modo in cui rivolge il suo approccio postmodernista a un bagaglio di riferimento di stampo prettamente giapponese. Se guardando certi film di Miike possiamo tracciare dei paralleli col cinema di Tarantino e Rodriguez, e se lo stile barocco dei primi film di Nakashima Tetsuya, che molto attingono dal fumetto anche se non direttamente, non è poi così distante dalle atmosfere e dagli stratagemmi visivi de Il favoloso mondo di Amelie (Jean-Pierre Jeunet, 2001), Cutie Honey non trova altri termini di riferimento se non in seno alla cultura pop nazionale, presente e passata. La super-eroina cosplayer, i mostri da tokusatsu, il montaggio paratattico da serie animata, le corse filmate lateralmente come in un videogame a scorrimento orizzontale di primi anni Novanta, la suddivisione in scenette che ricorda il manga comico, le posture innaturali, statiche e caricaturali di personaggi fortemente tipizzati, la naturalezza con cui si fondono erotico e kawaii, le sequenze drammatiche dall'atmosfera sospesa e vagamente new age alla Evangelion, sul finale: tutto ciò concorre a plasmare un'opera che, per quanto puerile e fine a se stessa, gode, proprio in grazia della determinazione e della coerenza con cui aderisce, talvolta sperimentando, ai linguaggi mutuati da manga e anime, di una forte identità. I prestiti intermediali sono cosa piuttosto comune tra le varie forme di cultura pop del Giappone contemporaneo, ma qui l'operazione è condotta in maniera così massiccia e solerte da rendere Cutie Honey un caso, mi sembra, piuttosto singolare.

venerdì 13 dicembre 2013

Martedì prossimo, alle 17:30, sarò a Bologna per la presentazione del volume Japan Pop - Parole, immagini, suoni dal Giappone contemporaneo (compare anche nella colonna qui a fianco), al quale ho collaborato con un saggio, corredato da intervista al regista, sul cinema di Yamashita Nobuhiro. La presentazione avverrà nell'ambito di NipPop, un progetto dell'Ateneo di Bologna dedicato alle culture Pop del Giappone Contemporaneo.

Copincollo qui di seguito la descrizione dell'evento, presa dalla relativa pagina Facebook:


Ritornano da ONO Arte la cultura e l’arte del Giappone contemporaneo: il progetto realizzato in collaborazione con NipPop, e con Paola Scrolavezza e Francesco Vitucci della Scuola di Lingue e Letterature, Traduzione e Interpretazione, prevede anche quest’anno un ciclo di appuntamenti dedicati alla vita nella metropoli dell’est per eccellenza, culla di mode, tendenze e culture che dal Giappone si irradiano inarrestabili otreoceano, fino a raggiungere ormai velocissime l’Europa, e l’Italia. La rassegna, dal titolo EASTant Metropolis, si propone come un viaggio a Tokyo, e un’esplorazione della dimensione più intrigante e ‘pop’ delle sue strade e dei suoi quartieri, per comprenderne le radici e le potenzialità, oltre i clichés e gli stereotipi più diffusi.

Ad anticipare il viaggio, come una sorta di guida, la presentazione del volume Japan Pop. Parole, immagini, suoni dal Giappone contemporaneo, curato da Gianluca Coci, per Aracne Editrice. 

Il volume vuole rappresentare un percorso esplorativo nella cultura giapponese contemporanea, un tentativo di individuare delle coordinate di fondo in un territorio in pieno divenire, magmatico, informe, e dai confini ancora molto labili. Attraverso una serie di saggi firmati da esperti italiani e stranieri, e interviste ad artisti e autori di fama internazionale (suddivisi in quattro sezioni: letteratura; manga e anime; cinema; arte, poesia e teatro), partendo da quel periodo di eccezionale rinnovamento a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta e giungendo fino ai giorni nostri, si indaga sulla nascita e sull’evoluzione della cultura “pop” nipponica. 

A presentare il volume e a rispondere alle domande del pubblico saranno da ONO Arte: 

Gianluca Coci 
curatore dell’opera 
autore del saggio 'Tra campi di fragole e simpatia per il diavolo: la letteratura giapponese contemporanea a tempo di rock' 
e dell’intervista a Machida Kō e Nakahara Masaya 

Giacomo Calorio 
autore del saggio 'Il cinema di Yamashita Nobuhiro: sogni e disagi di giovani outsider' 
e dell'intervista a Yamashita Nobuhiro 

Ichiguchi Keiko 
mangaka e scrittrice 
protagonista dell’intervista condotta da Marcello Ghilardi 

Paola Scrolavezza 
autore del saggio 'Silhouettes in black: l’ombra del giallo nella scrittura femminile 
del Giappone contemporaneo' e dell’intervista a Kirino Natsuo 


A CONDURRE L’INCONTRO SARA’ LA GIORNALISTA E SCRITTRICE MARIA TATSOS

giovedì 12 dicembre 2013

Crows Zero (Miike Takashi, 2007)

Brevemente, perché in questo periodo non ho molto tempo. Sempre per approfondire la questione dell'intermedialità tra cinema e manga, nei giorni scorsi ho recuperato altri due film attinenti all'argomento.
Il primo è Crows Zero (2007) di Miike Takashi, episodio iniziale di una trilogia, tratta dal manga Crows di Takahashi Hiroshi, il cui terzo capitolo uscirà nel 2014 per la regia di Toyoda Toshiaki (che già si era cimentato con questo genere di atmosfere in uno dei suoi primi lavori: Blue Spring, a sua volta tratto da un manga di Matsumoto Taiyō).
La mia impressione è che il film di Miike non apporti particolari elementi di novità alla sua filmografia, per cui forse non risulterà (anzi, "sarà risultato", dato che è un film del 2007 e io scrivo in differita) particolarmente eclatante agli occhi di chi ha già visto e apprezzato precedenti lavori analoghi del regista. Allo stesso tempo, tuttavia, ne conferma la maestria nel tradurre in pellicola le pagine, o anche solo le atmosfere, di uno shōnen manga d'azione. Così su due piedi, non mi vengono in mente altri registi capaci di rendere così fruibile e autonoma (non ho letto il manga di Takahashi ma ho trovato ugualmente godibile il film) un'opera di questa natura, ovvero che attinge a un universo cartaceo fortemente codificato, rendendone in una certa misura plausibili i cliché senza per questo tradirne lo spirito originale. Personalmente l'ho preferito al più recente Ai to makoto  (For Love's Sake, 2012), anch'esso di ispirazione manga e ambientato in un liceo malfamato in cui abbondano le risse e bazzica la yakuza, la cui impostazione da musical volutamente kitsch, sebbene generasse alcuni momenti esilaranti, mi era sembrata una scelta un po' troppo consumata e di maniera, per un regista come Miike.
Dell'altro film parlo domani o nei prossimi giorni.

giovedì 5 dicembre 2013

Love My Life (2006) di Kawano Kōji

Altro film recuperato allo scopo di farmi un'idea più precisa e concreta dei rapporti che intercorrono tra cinema e manga: Love My Life (2006) di Kawano Kōji, adattamento cinematografico di un omonimo manga di Yamaji Ebine pubblicato in Italia da Kappa Edizioni.
In realtà non c'è molto da dire al riguardo. Il film mi ha ricordato un po', nelle premesse, Kakera (A Piece of Our Life) di Andō Momoko (che in realtà gli è successivo), una pellicola che avevo recensito tempo fa su Sonatine, anch'essa tratta da un fumetto di un'autrice di successo e incentrata su una relazione tra due giovani donne. I due film hanno in comune anche una certa immaturità stilistica (del resto sono entrambi opere prime o giù di lì), in parte riscattata dallo sguardo onesto e partecipe con cui si rivolgono, specialmente nel caso del film di Kawano (che si impegna con solerzia fin eccessiva a mettere in campo un'ampia casistica di relazioni - e relative problematiche - che si intrecciano un po' troppo spesso per volere del caso), alle difficoltà concernenti la ricerca di una propria identità e la conduzione di una relazione omosessuale nel Giappone odierno. Fedele al manga nella trama, Love My Life descrive il rapporto tra le due protagoniste con approccio romantico e naif, e con occhio spesso pudico (mentre con maggiore naturalezza era rappresentato il sesso dal tratto scarno della fumettista). A mancare in questo adattamento è proprio l'elegante essenzialità formale del manga (il quale, va detto, è un manga abbastanza sui generis, almeno secondo gli standard ai quali siamo abituati qui), che qui perde incisività a causa di una regia che oscilla tra il televisivo e il videoclip.

sabato 30 novembre 2013

A Woman and War (Inoue Jun'ichi, 2013)


Ieri ho fatto una capatina al Torino Film Festival per intercettare la proiezione di Sensō to hitori no onna (A Woman and War, 2013), opera prima di Inoue Jun'ichi, sceneggiatore che ha collaborato agli ultimi film di Wakamatsu. Come sottolinea Matteo Boscarol nella sua scheda del film su Sonatine, si tratta di un film brutale in cui lo sguardo scarno, spesso sciatto, del digitale diventa funzionale a tale brutalità. E concordo anche sul fatto che sia un film necessario in un paese che mostra ancora una certa qual reticenza (se non peggio) a riconoscere atroci responsabilità di un passato non così lontano (aspetti che il protagonista maschile del film vomita fuori, diretto allo spettatore, nel piano fisso dell'interrogatorio finale). Premesso questo motivo d'apprezzamento, al quale si aggiunge il fatto che ho trovato comunque interessante il tema della "dipendenza" dalla guerra e dai suoi orrori (che si esprima sotto forma di perpetrazione dei crimini sconvolgenti che questa ha portato a compiere durante il suo svolgimento o nella compulsione meccanica di un sesso senza piacere, o ancora nel più esplicito ricorso all'eroina), personalmente fatico a trovare coinvolgente un film in cui si capisce dopo tre minuti dove il regista voglia andare a parare, per cui tutta la mia voglia di vedere il film è scemata dopo il primo stupro del soldato, associato, tramite una elementare scelta di montaggio, alla figura della frigida protagonista (lo stesso valga per la scena delle uova comprate al mercato nero, campanello d'allarme grosso come una casa che ci dice a chiare lettere che poi la ragazza vi tornerà a comprare del riso finendo vittima del soldato che proprio al mercato nero adesca le sue prede). Ho sperato per tutta la proiezione che le strade del soldato e della prostituta, destinate per forza di cose a incrociarsi data la natura bifida della sceneggiatura, non andassero necessariamente a incastrarsi complementariamente a quel modo, come era evidente che sarebbe accaduto e come infatti è stato. Il forte didascalismo che permea tutto il film, di cui avevo già letto sperando di non trovarne conferma, si manifesta ugualmente nella scena del bombardamento incendiario in cui la donna, anche in questo caso rivolta allo spettatore, augura al Giappone di bruciare con un'enfasi teatrale d'altri tempi che francamente ho trovato insopportabile. Peccato perché invece il suo personaggio, così come lo svolgersi della sua relazione "a scadenza" con quello dello scrittore, mi è piaciuto molto, e ho trovato che sugli orrori della guerra fosse capace di esprimere già abbastanza attraverso i dialoghi e le scene di sesso, senza bisogno di rimarcare forzatamente con dei monologhi di cos'è che si sta parlando. Se Inoue si fosse concentrato maggiormente su quanto di implicito vi era in questa relazione fuori dal comune, senza troppa ansia di lanciare messaggi o dimostrare tesi (entrambi condivisibili), forse ne sarebbe risultato un film meno necessario ma, credo, più interessante. Certo, occorre stabilire cos'è che ha la priorità, in un'opera di questo tipo.

giovedì 28 novembre 2013

Welcome to the Quiet Room (Suzuki Matsuo, 2007)

Proseguo nel mio percorso di visioni di film giapponesi recenti che mostrino un qualche legame col mondo dei manga. In questo caso non si tratta di una trasposizione, ma sapevo comunque di andare sul sicuro, essendo un'opera dell'autore di Koi no mon (Otaku's Love, 2004). A quanto pare, questo Quiet room ni yōkoso (Welcome to the Quiet Room, 2007) è l'unico lungometraggio diretto dal poliedrico Suzuki Matsuo (che è anche attore e scrittore) dopo il suo bizzarro film d'esordio sul mangaka che realizzava fumetti coi sassi. Aggiungerei che è un peccato, perché ho trovato entrambi i film interessanti, questo in particolare. Il suo rifarsi a un'estetica pop che attinge abbondantemente dal manga, dagli anime e dalla televisione manca degli eccessi barocchi dei lavori diretti dal collega Nakashima Tetsuya (Kamikaze GirlsMemories of Matsuko, Paco and the Magical Picture Book), ma risulta tanto più efficace, spregiudicato ed esilarante quanto sapientemente dosato, quando non addirittura stemperato da toni inaspettatamente drammatici. Invece di limitarsi a produrre un'indigestione di colori, suoni, deformazioni, personaggi archetipici e caricaturali, trivialità, animazioni e scritte in sovrimpressione, Suzuki dispone tali elementi con attenzione, quasi con parsimonia, giocando abilmente sui contrasti e realizzando un'opera strana, sghemba, un qualcosa di imperfetto che non sai bene come prendere, ma che sorprendentemente funziona fino alla fine.

martedì 26 novembre 2013

Death Note: The Last Name (Kaneko Shūsuke, 2006)


Ieri sera mi sono guardato il secondo dei due film tratti da Death Note, ovvero The Last Name (escludendo per ora il prequel su L diretto da Nakata Hideo). Essendo un tutt'uno col primo sia a livello narrativo che stilistico (entrambi i film sono usciti nel 2006 per la regia di Kaneko Shūsuke, e insieme esauriscono l'intero arco narrativo ricoperto dalla prima parte del manga), non c'è molto altro da dire al riguardo rispetto a ciò che avevo già scritto per il precedente. Siccome però non l'avevo fatto in questo spazio appena inaugurato, mi concedo qualche ripetizione. 
Da conoscitore dell'opera (ho tradotto per Planet Manga sia la serie a fumetti di Ohba/Obata, sia la riuscita versione animata), l'ho trovata nel complesso una riduzione senza infamia né lode, nel senso che da un lato centra l'obiettivo di funzionare come thriller metafisico a sé stante, soprattutto per merito della sceneggiatura di Oishi Tetsuya che evita abilmente gli eccessi verbali del manga tagliando innanzitutto le voci over dei protagonisti con le loro elucubrazioni, e opera inoltre una fusione abbastanza efficace (sorvolando sulle sbavature retoriche) tra il finale di questa parte del manga e quello vero e proprio, inventandosi, forse con l'aiuto degli autori, una soluzione inedita ma congruente alla battaglia tra Light e L. Questo, insieme alla regia pur senza picchi e meramente funzionale di Kaneko, contribuisce a donare un buon ritmo alla trasposizione, scongiurando (se si escludono un paio di passaggi) il pericolo assai probabile che ne risultasse un pasticcio noioso e incomprensibile ai più. D'altro canto, l'inevitabile lavoro di sottrazione fa sì che i due protagonisti risultino giocoforza più opachi, a partire dal personaggio di Light che, complice anche l'interpretazione non troppo convincente di Fujiwara Tatsuya, smarrisce gran parte del suo fascino perverso (ma si perde per strada anche tutto il tragico del suo rapporto col padre, i cui effetti dello stillicidio subìto emergevano dal pennino di Obata con molta più forza di quanto non riesca a esprimere il volto di Kaga Takeshi).
Tuttavia, lo scoglio più grande ad accettarne il risultato deriva dal passaggio solo parzialmente compiuto dalla carta stampata allo schermo, operazione che solitamente ha più probabilità di riuscita qualora venga fatto ricorso al filtro dell'ironia. Ma poiché in Death Note di ironia ce n'è in fondo ben poca, i suoi personaggi, che aderiscono pur sempre a precisi cliché (visuali ed espressivi) del manga per ragazzi, nel cui contesto - e solo in quello - essi risultano plausibili, il risultato finale ha il sapore di una stonatura, come se gli attori in carne e ossa fotografati sullo schermo in location reali, fossero in realtà delle sagome di cartone non meno finte e posticce degli shinigami malamente animati in CG. Da questo punto di vista, scelte più radicali avrebbero certamente giovato al film, anche se avrebbero di sicuro scontentato i fan ai quali questo genere di operazioni è solitamente diretto.

sabato 23 novembre 2013

Sono nato ma: apro un nuovo blog

Ho deciso di aprire un nuovo blog. Come potete vedere, è ancora in fase di allestimento (al momento sto combattendo con gli sfondi). Questa volta sarà un blog incentrato esclusivamente sulle cose delle quali mi occupo per passione o per lavoro: cinema giapponese (soprattutto) e manga, tanto per cominciare. Ho deciso di aprire questo spazio principalmente allo scopo di riportarvi brevi considerazioni sui film che vedo o, più raramente, sui manga che traduco. Finora l'ho sempre fatto tramite il mio profilo Facebook, ma visto che ultimamente questa pratica sta diventando più assidua e costante, mi è sembrato più opportuno racchiudere (e archiviare) quel genere di pensieri senza troppe pretese in un luogo apposito, meno dispersivo e volatile e, soprattutto, più raggiungibile da persone che non mi conoscono di persona ma che possono eventualmente essere interessate agli argomenti qui trattati. In ogni caso, sarà uno spazio adibito più che altro ad appunti scritti di getto, non a vere e proprie recensioni o a saggi lunghi e articolati. Vi troverete inoltre i link alle mie schede (queste sì, più approfondite) pubblicate sul blog di cinema giapponese contemporaneo Sonatine o a pezzi scritti da altre parti, e magari segnalerò anche eventi e quant'altro di legato all'argomento. Vedremo.
Se mai qualcuno si chiedesse come mai questo blog si chiama come il titolo di un celebre film di Ozu, sappia che è soltanto il primo titolo che mi è venuto in mente. Volendo, però, lo si può anche immaginare come una presa di coscienza del fatto che questo blog nasce senza alcuna garanzia di avere una lunga vita (me ne sono già nati due, di blog, ma...).
Per quanto riguarda l'immagine in alto, l'ho rubata da Cha no aji (Taste of Tea, 2004) di Ishii Katsuhito. Anche in questo caso, l'ho scelta semplicemente perché mi piaceva, ma trovo che in fondo sia suggestiva, se associata al titolo del blog (la bambina assorta nei suoi pensieri con un alter ego più grande alle sue spalle può anche richiamare un'idea di futuro incerto, volendo). Non è detto che un giorno non la cambi, però: come ho già scritto, è ancora tutto in fase di allestimento (ma se fossi stato a pensarci troppo su aspettando che tutto fosse pronto e deciso per bene, il blog non sarebbe mai decollato).
Chissà se funzionerà? In ogni caso, grazie a chi vorrà seguirmi e, ancora più, a chi sarà così gentile da commentare.