sabato 30 novembre 2013

A Woman and War (Inoue Jun'ichi, 2013)


Ieri ho fatto una capatina al Torino Film Festival per intercettare la proiezione di Sensō to hitori no onna (A Woman and War, 2013), opera prima di Inoue Jun'ichi, sceneggiatore che ha collaborato agli ultimi film di Wakamatsu. Come sottolinea Matteo Boscarol nella sua scheda del film su Sonatine, si tratta di un film brutale in cui lo sguardo scarno, spesso sciatto, del digitale diventa funzionale a tale brutalità. E concordo anche sul fatto che sia un film necessario in un paese che mostra ancora una certa qual reticenza (se non peggio) a riconoscere atroci responsabilità di un passato non così lontano (aspetti che il protagonista maschile del film vomita fuori, diretto allo spettatore, nel piano fisso dell'interrogatorio finale). Premesso questo motivo d'apprezzamento, al quale si aggiunge il fatto che ho trovato comunque interessante il tema della "dipendenza" dalla guerra e dai suoi orrori (che si esprima sotto forma di perpetrazione dei crimini sconvolgenti che questa ha portato a compiere durante il suo svolgimento o nella compulsione meccanica di un sesso senza piacere, o ancora nel più esplicito ricorso all'eroina), personalmente fatico a trovare coinvolgente un film in cui si capisce dopo tre minuti dove il regista voglia andare a parare, per cui tutta la mia voglia di vedere il film è scemata dopo il primo stupro del soldato, associato, tramite una elementare scelta di montaggio, alla figura della frigida protagonista (lo stesso valga per la scena delle uova comprate al mercato nero, campanello d'allarme grosso come una casa che ci dice a chiare lettere che poi la ragazza vi tornerà a comprare del riso finendo vittima del soldato che proprio al mercato nero adesca le sue prede). Ho sperato per tutta la proiezione che le strade del soldato e della prostituta, destinate per forza di cose a incrociarsi data la natura bifida della sceneggiatura, non andassero necessariamente a incastrarsi complementariamente a quel modo, come era evidente che sarebbe accaduto e come infatti è stato. Il forte didascalismo che permea tutto il film, di cui avevo già letto sperando di non trovarne conferma, si manifesta ugualmente nella scena del bombardamento incendiario in cui la donna, anche in questo caso rivolta allo spettatore, augura al Giappone di bruciare con un'enfasi teatrale d'altri tempi che francamente ho trovato insopportabile. Peccato perché invece il suo personaggio, così come lo svolgersi della sua relazione "a scadenza" con quello dello scrittore, mi è piaciuto molto, e ho trovato che sugli orrori della guerra fosse capace di esprimere già abbastanza attraverso i dialoghi e le scene di sesso, senza bisogno di rimarcare forzatamente con dei monologhi di cos'è che si sta parlando. Se Inoue si fosse concentrato maggiormente su quanto di implicito vi era in questa relazione fuori dal comune, senza troppa ansia di lanciare messaggi o dimostrare tesi (entrambi condivisibili), forse ne sarebbe risultato un film meno necessario ma, credo, più interessante. Certo, occorre stabilire cos'è che ha la priorità, in un'opera di questo tipo.

giovedì 28 novembre 2013

Welcome to the Quiet Room (Suzuki Matsuo, 2007)

Proseguo nel mio percorso di visioni di film giapponesi recenti che mostrino un qualche legame col mondo dei manga. In questo caso non si tratta di una trasposizione, ma sapevo comunque di andare sul sicuro, essendo un'opera dell'autore di Koi no mon (Otaku's Love, 2004). A quanto pare, questo Quiet room ni yōkoso (Welcome to the Quiet Room, 2007) è l'unico lungometraggio diretto dal poliedrico Suzuki Matsuo (che è anche attore e scrittore) dopo il suo bizzarro film d'esordio sul mangaka che realizzava fumetti coi sassi. Aggiungerei che è un peccato, perché ho trovato entrambi i film interessanti, questo in particolare. Il suo rifarsi a un'estetica pop che attinge abbondantemente dal manga, dagli anime e dalla televisione manca degli eccessi barocchi dei lavori diretti dal collega Nakashima Tetsuya (Kamikaze GirlsMemories of Matsuko, Paco and the Magical Picture Book), ma risulta tanto più efficace, spregiudicato ed esilarante quanto sapientemente dosato, quando non addirittura stemperato da toni inaspettatamente drammatici. Invece di limitarsi a produrre un'indigestione di colori, suoni, deformazioni, personaggi archetipici e caricaturali, trivialità, animazioni e scritte in sovrimpressione, Suzuki dispone tali elementi con attenzione, quasi con parsimonia, giocando abilmente sui contrasti e realizzando un'opera strana, sghemba, un qualcosa di imperfetto che non sai bene come prendere, ma che sorprendentemente funziona fino alla fine.

martedì 26 novembre 2013

Death Note: The Last Name (Kaneko Shūsuke, 2006)


Ieri sera mi sono guardato il secondo dei due film tratti da Death Note, ovvero The Last Name (escludendo per ora il prequel su L diretto da Nakata Hideo). Essendo un tutt'uno col primo sia a livello narrativo che stilistico (entrambi i film sono usciti nel 2006 per la regia di Kaneko Shūsuke, e insieme esauriscono l'intero arco narrativo ricoperto dalla prima parte del manga), non c'è molto altro da dire al riguardo rispetto a ciò che avevo già scritto per il precedente. Siccome però non l'avevo fatto in questo spazio appena inaugurato, mi concedo qualche ripetizione. 
Da conoscitore dell'opera (ho tradotto per Planet Manga sia la serie a fumetti di Ohba/Obata, sia la riuscita versione animata), l'ho trovata nel complesso una riduzione senza infamia né lode, nel senso che da un lato centra l'obiettivo di funzionare come thriller metafisico a sé stante, soprattutto per merito della sceneggiatura di Oishi Tetsuya che evita abilmente gli eccessi verbali del manga tagliando innanzitutto le voci over dei protagonisti con le loro elucubrazioni, e opera inoltre una fusione abbastanza efficace (sorvolando sulle sbavature retoriche) tra il finale di questa parte del manga e quello vero e proprio, inventandosi, forse con l'aiuto degli autori, una soluzione inedita ma congruente alla battaglia tra Light e L. Questo, insieme alla regia pur senza picchi e meramente funzionale di Kaneko, contribuisce a donare un buon ritmo alla trasposizione, scongiurando (se si escludono un paio di passaggi) il pericolo assai probabile che ne risultasse un pasticcio noioso e incomprensibile ai più. D'altro canto, l'inevitabile lavoro di sottrazione fa sì che i due protagonisti risultino giocoforza più opachi, a partire dal personaggio di Light che, complice anche l'interpretazione non troppo convincente di Fujiwara Tatsuya, smarrisce gran parte del suo fascino perverso (ma si perde per strada anche tutto il tragico del suo rapporto col padre, i cui effetti dello stillicidio subìto emergevano dal pennino di Obata con molta più forza di quanto non riesca a esprimere il volto di Kaga Takeshi).
Tuttavia, lo scoglio più grande ad accettarne il risultato deriva dal passaggio solo parzialmente compiuto dalla carta stampata allo schermo, operazione che solitamente ha più probabilità di riuscita qualora venga fatto ricorso al filtro dell'ironia. Ma poiché in Death Note di ironia ce n'è in fondo ben poca, i suoi personaggi, che aderiscono pur sempre a precisi cliché (visuali ed espressivi) del manga per ragazzi, nel cui contesto - e solo in quello - essi risultano plausibili, il risultato finale ha il sapore di una stonatura, come se gli attori in carne e ossa fotografati sullo schermo in location reali, fossero in realtà delle sagome di cartone non meno finte e posticce degli shinigami malamente animati in CG. Da questo punto di vista, scelte più radicali avrebbero certamente giovato al film, anche se avrebbero di sicuro scontentato i fan ai quali questo genere di operazioni è solitamente diretto.

sabato 23 novembre 2013

Sono nato ma: apro un nuovo blog

Ho deciso di aprire un nuovo blog. Come potete vedere, è ancora in fase di allestimento (al momento sto combattendo con gli sfondi). Questa volta sarà un blog incentrato esclusivamente sulle cose delle quali mi occupo per passione o per lavoro: cinema giapponese (soprattutto) e manga, tanto per cominciare. Ho deciso di aprire questo spazio principalmente allo scopo di riportarvi brevi considerazioni sui film che vedo o, più raramente, sui manga che traduco. Finora l'ho sempre fatto tramite il mio profilo Facebook, ma visto che ultimamente questa pratica sta diventando più assidua e costante, mi è sembrato più opportuno racchiudere (e archiviare) quel genere di pensieri senza troppe pretese in un luogo apposito, meno dispersivo e volatile e, soprattutto, più raggiungibile da persone che non mi conoscono di persona ma che possono eventualmente essere interessate agli argomenti qui trattati. In ogni caso, sarà uno spazio adibito più che altro ad appunti scritti di getto, non a vere e proprie recensioni o a saggi lunghi e articolati. Vi troverete inoltre i link alle mie schede (queste sì, più approfondite) pubblicate sul blog di cinema giapponese contemporaneo Sonatine o a pezzi scritti da altre parti, e magari segnalerò anche eventi e quant'altro di legato all'argomento. Vedremo.
Se mai qualcuno si chiedesse come mai questo blog si chiama come il titolo di un celebre film di Ozu, sappia che è soltanto il primo titolo che mi è venuto in mente. Volendo, però, lo si può anche immaginare come una presa di coscienza del fatto che questo blog nasce senza alcuna garanzia di avere una lunga vita (me ne sono già nati due, di blog, ma...).
Per quanto riguarda l'immagine in alto, l'ho rubata da Cha no aji (Taste of Tea, 2004) di Ishii Katsuhito. Anche in questo caso, l'ho scelta semplicemente perché mi piaceva, ma trovo che in fondo sia suggestiva, se associata al titolo del blog (la bambina assorta nei suoi pensieri con un alter ego più grande alle sue spalle può anche richiamare un'idea di futuro incerto, volendo). Non è detto che un giorno non la cambi, però: come ho già scritto, è ancora tutto in fase di allestimento (ma se fossi stato a pensarci troppo su aspettando che tutto fosse pronto e deciso per bene, il blog non sarebbe mai decollato).
Chissà se funzionerà? In ogni caso, grazie a chi vorrà seguirmi e, ancora più, a chi sarà così gentile da commentare.